Seconda parte
Perché critichiamo la legge 40

Tutto il testo della legge è criticabile, a partire dal titolo (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”). Esso delinea il terreno di confronto scelto: non quello delle tecniche di riproduzione e delle modalità di accedervi da parte di colei che deliberatamente dispone il proprio corpo alla loro applicazione (la donna), ma quello della procreazione medicalmente assistita.
Il sostantivo procreazione, in genere viene utilizzato in riferimento alla specie umana e allude a un retroterra culturale complesso, che da un lato richiama la connessione fra la creazione biblica e la procreazione umana, dall’altro iscrive quest’ultima in quell’atto originario, consegnandola al regno della “naturalità”, così come essa viene intesa dalla cultura cattolica. Questa apparente umanizzazione del contesto, questa apparente presa di distanza dalla tecnologia medica, produce il risultato che il corpo femminile diventa l’oggetto dell’azione legislativa e di trattamenti sanitari obbligati, un corpo pubblico vincolato da divieti, controllato nelle relazioni private e nelle scelte sessuali. Siamo insomma di fronte a una legge regressiva, che cancella gli elementi di civilizzazione dei rapporti sociali e tra i sessi che sono il fondamento degli stati democratici.

La legge, in primo luogo, nega il principio di autodeterminazione della donna, che oggi è norma di diritto positivo in tutti i paesi europei, ma si è affermato prima di tutto come pratica di massa, con cui le donne si sono sottratte in prima persona e in tutti i modi alla maternità obbligata. Il riconoscimento della piena responsabilità femminile sulla maternità ha segnato con grande difficoltà il diritto occidentale e ha una doppia valenza. Da un lato segna l’accesso delle donne allo statuto pieno di individuo, riconoscendo loro la libertà di disporre del proprio corpo e della sua capacità generativa. D’altro lato diventa fondamento ordinatore di una cittadinanza non escludente. Lo strumento con cui la legge 40 nega l’autodeterminazione femminile è il riconoscimento dell’embrione come soggetto che ha gli stessi diritti della persona formata. Si afferma così un principio che sovverte tutta la tradizione giuridica europea, che invece fa coincidere l’acquisizione dei diritti di persona, il divenire soggetto di diritto, con il momento della nascita, a partire dall’articolo primo del codice civile italiano (“La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”. Questa sovversione del diritto è stata concepita da anni e viene portata avanti in modo articolato, in primo luogo con le leggi regionali sulla famiglia del centrodestra, ma soprattutto in un dibattito culturale trasversale agli schieramenti politici. Passati gli anni in cui nell’immaginario collettivo le donne che abortivano erano associate alla clandestinità, l’idea della donna che decide viene presentata e vissuta come arrogante e minacciosa. Le nuove vittime sarebbero i padri (che si associano fra di loro e contestano le sentenze di separazione che affidano i figli alle madri, o tentano di impedire alla partner di abortire) e gli embrioni. Il punto cruciale rimosso e negato è la relazione fra la donna e l’embrione, una relazione simbiotica in cui lo sviluppo dell’uno è legato alla cura, alla accettazione, al desiderio dell’altra. Non c’è, non ci può essere tutela dell’uno contro la volontà e i desideri dell’altra. “Si diventa persone tramite quella mediazione femminile, mediazione necessaria, indispensabile “(Tamara Pitch). In questo senso si è pronunciata anche la Corte costituzionale italiana, che a ha affermato che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute, proprio di chi è gia persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”(sentenza n.27/1975). Lo stesso principio è stato affermato dalla Corte costituzionale tedesca, che nel 1993 ha affermato che il diritto alla vita del nascituro può essere tutelato solo insieme e non contro la madre. La legge 40, invece, antepone la tutela dell’embrione a quella della madre, prefigurando una revisione restrittiva della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, in sintonia con gli ambienti cattolici più tradizionalisti, e rappresenta un significativo passo indietro: dallo Stato di diritto e dalle Costituzioni laiche, sociali, egualitarie ed evolutive del ‘900, allo Stato etico e confessionale.

La seconda critica radicale che rivolgiamo alla legge contesta l’abbandono del principio di laicità dello stato, della necessaria rinuncia degli Stati democratici a far coincidere l’etica e la legge, per riconoscere concezioni del mondo, della vita e della morale che nella vita concreta delle persone sono diverse e plurali. Al contrario, la legge 40 fa sua una etica di parte, quella conservatrice e patriarcale, e la impone a tutto il paese: riconosce solo la coppia di sesso diverso, coniugata o convivente. Solo questa coppia può accedere alle tecniche di riproduzione assistita, con l’assoluto divieto di ricorrere alla fecondazione cosidetta “eterologa” (con il seme o l’ovocito di un donatore o una donatrice esterni alla coppia). L’idea che la maternità e paternità debba essere solo biologica e interna alla coppia, anche contro la volontà esplicita della coppia stessa, è imposta come salvaguardia di un ordine “naturale” immutabile e dato, da preservare per le future generazioni. Su tutto questo si è ricompattato uno schieramento trasversale alle forze politiche, che vuole rinnovare e riprodurre un modello di rapporti politici, giuridici, economici e sociali ispirati a un’etica di parte, rimettendo in discussione leggi (dal codice civile alla riforma del diritto di famiglia) che riconoscono che la paternità e la maternità non sono soltanto e necessariamente biologiche, ma si costruiscono giorno per giorno nella vita di relazione e negli affetti. Questa concezione della genitorialità si è da tempo affermata nel diritto positivo: basta pensare all’adozione e al riconoscimento dei nati fuori dal matrimonio per capire quanto sia irragionevole e discriminatoria la pretesa di imporre per legge una genitorialità biologica solo alle coppie che ricorrono alla fecondazione assistita.

Questa è anche la terza critica che rivolgiamo alla legge 40: fa carta straccia del principio di uguaglianza, solennemente riconosciuto dalla nostra Costituzione, che impegna la Repubblica a rimuovere le discriminazioni dipendenti da condizioni personali e sociali. La legge 40, al contrario, limita il ricorso alla fecondazione assistita alla rimozione delle cause di infertilità o sterilità di coppia e quindi impedisce di ricorrere alla fecondazione assistita sia a coppie che potrebbero trasmettere ai figli malattie e genetiche o virali, sia a coppie di cui sono sterili entrambi o uno dei componenti (fecondazione “eterologa”), sia a donne sole.

Infine, la legge 40 entra in conflitto con il diritto alla salute della donna, con la responsabilità del medico e con la possibilità di progresso della ricerca applicata alla cura di malattie gravi e diffuse. Da un lato, entra nel merito di scelte che dovrebbero essere riservate alla donna e al medico che la assiste, perché sono strettamente connesse con la tutela della sua salute, come la quantità di embrioni impiantabili e l’obbligo di impianto di tutti gli embrioni subito dopo la fecondazione. D’altra parte costringe la donna, dopo il trauma di un impianto non voluto, a scegliere se far nascere un bimbo malato o abortire. In questo modo, non solo legge finisce, paradossalmente, con l’incoraggiare l’aborto, ma trasforma le tecniche di riproduzione assistita, già di per se invasive e pesanti per il corpo e la psiche della donna, in forme di vero e proprio castigo e supplizio. Il percorso obbligato cui deve sottoporsi la donna che ricorre alla fecondazione assistita nel nostro paese la precipita in un girone dell’inferno dantesco, al quale non può più sottrarsi, perché non le viene riconosciuta nessuna possibilità di ripensamento e di revoca del consenso. Allo stesso tempo, la legge pone limiti alla ricerca scientifica (divieto di ricerca sulle cellule staminali embrionali) sulla base di un principio etico, riproponendo atteggiamenti che pensavamo di aver superato ai tempi di Galileo.

Per tutte queste ragioni, oltre che per una questione di democrazia, non solo è importante andare a votare il 12 e 13 giugno, e far votare amici e conoscenti, ma è decisivo votare SI a tutti e quattro i referendum.


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